Tarda mattinata di un giorno grigio di gennaio. Incontriamo il regista Renzo Martinelli presso gli studi dove sta lavorando al montaggio del suo prossimo film. E’ l’occasione per rivolgergli qualche domanda sul senso del suo cinema e sui retroscena dei suoi film.
Innanzitutto, da dove nasce in lei la passione per il cinema? Cosa l’ha portata a fare il regista?
È una passione che ha radici molto profonde; da ragazzo ero affascinato più che altro come spettatore, poi è nata in me la volontà di farne una professione. Dopo l’università ho frequentato un master in cinematografia alla Cattolica di Milano e poi, con una mia casa di produzione, ho cominciato a fare i primi lavori; cortometraggi, inchieste televisive. Da lì sono passato ai video clip, agli spot pubblicitari, sempre con l’ambizione di fare cinema. Poco alla volta sono arrivato al grande schermo.
Come sceglie i soggetti dei suoi film? Si è mai ispirato a romanzi o racconti?
Il tipo di cinema che faccio può essere definito “d’impegno civile”; io ritengo che la cinematografia abbia, quando ci riesce, una potentissima funzione maieutica, ovvero la capacità di far riflettere lo spettatore. Questo tipo di cinema ti costringe a lavorare su fatti reali o verità rimosse. Questo mi ha portato a trattare temi che riguardano più la storia del nostro paese che non altri argomenti legati a romanzi o racconti. È nel mio dna; io non riesco a lavorare su progetti che non abbiano dentro di sé una qualche funzione etica.
Abbiamo notato una discordanza tra l’opinione della critica e gli incassi dei suoi film da una parte e l’effettivo gradimento del pubblico dall’altra. I suoi film sono tra i più scaricati dalla rete e hanno riscosso molto successo nonostante gli incassi nelle sale siano stati contenuti. Affrontare argomenti spinosi può penalizzare il film?
I temi affrontati spesso provocano una sorta di dicotomia: o pro o contro. Anche il modo di girare, che è molto spettacolare, molto “americano” e poco italiano comporta un certo rifiuto, a volte aprioristico. I critici entrano in sala sapendo che scriveranno male del film, ma fa parte del gioco, non mi scandalizzo più di tanto. Se fai un film sul caso Moro o, come sto tentando di fare, sulla morte di Mussolini, o su Ustica e Bologna, vai a toccare argomenti che in questo paese sono pericolosi¸ che mettono in moto meccanismi di autodifesa e di repulsione.
Sono inoltre film che io chiamo “di terza scelta”. Lo spettatore va prima a vedere Tom Cruise, poi Apocalypto, poi Il mercante di pietre. Ma quando si decide ad andare a vedere il film è tardi, l’hanno già tolto. Se la distribuzione non dà al film una vita fisiologica lunga, il film è condannato.
Poi viene scaricato da internet, in dvd l’abbiamo venduto in tutto il mondo, perché l’interesse c’è; è la vita fisiologica ad essere troppo breve.
A proposito dello stile più “americano” che italiano, come ha sviluppato questo modo di girare? Ha avuto qualche maestro o qualche grande regista che l’ha ispirata?
Diciamo che sono due le direttrici; una è quella del mio background di pubblicitario. Io ho fatto quindici anni di pubblicità, avendo sperimentato tutte le tecniche possibili ho acquisito un know-how su questo particolare modo di girare che altri miei colleghi non hanno. La seconda direttrice è di carattere invece etico; il film non è un fatto artistico, ma industriale. Facendo film con contenuti così complessi, bisogna dargli una veste spettacolare, altrimenti la difficoltà è doppia. Il riferimento potrebbe essere Oliver Stone, un autore che ha saputo affrontare temi forti usando un linguaggio cinematografico molto spettacolare.
Il suo ultimo film, Il mercante di pietre, ha suscitato parecchie discussioni per la maniera in cui affronta il tema del rapporto con il mondo islamico. Il protagonista del film ad un certo punto scrive che “il nostro compito è liberare gli islamici dall’Islam”. Lei condivide quest’affermazione?
È una citazione di uno storico francese, Ernest Renan, che nell’800 è stato uno dei primi ad approfondire la conoscenza dell’Islam e a rendersi conto della sua pericolosità. La convinzione che il Corano sia increato, che ciò che vi è scritto sia la verità assoluta, discesa direttamente da Dio su Maometto, ha impedito qualsiasi tipo di apertura verso l’esterno. Questa è la vera condanna dell’Islam; l’incapacità di uscire da questo guscio culturale che ha pretese di unicità e di universalità assoluta.
Crede che esista anche un Islam moderato con cui è possibile dialogare?
Sicuramente una delle vie è il dialogo con la parte moderata del mondo musulmano.
Ma se la corrente estremista wahhabita diventa sempre più forte, l’ala moderata sarà perdente.
Quando avvengono gli attentati, perché il mondo musulmano moderato, italiano ed europeo, non condanna apertamente, non manifesta? È evidente che la corrente fondamentalista riesce a dominare la cultura musulmana, e l’occidente su questo sta peccando molto di miopia. Il tutto è peggiorato da un abbandono da parte nostra dell’identità cristiana. L’uomo ha rifiutato Dio, non in favore di altri dei, come è sempre accaduto, ma in favore di nessun Dio; non abbiamo più identità.
Quindi secondo lei per arginare il fondamentalismo islamico è necessario recuperare l’identità cristiana? O è possibile affrontarlo anche attraverso uno spirito laico?
Deve avvenire il recupero della nostra identità, dei valori fondanti della nostra civiltà, come la sacralità della vita, la parità dei sessi, la libertà di espressione e di culto. Senza questa presa di coscienza della nostra identità cristiana, come possiamo fronteggiare una cultura così forte?
Alla lunga queste dinamiche sono destinate a giungere a saturazione; prima o poi la storia presenta il conto.
Lei sta già lavorando al montaggio di un nuovo lungometraggio riguardante Primo Carnera. Come mai la scelta di parlare di questo personaggio? Vorrebbe darci qualche anticipazione?
Spesso accade che è il film a scegliere il regista e non il contrario; questo è un progetto nato così. Ho girato due film in Friuli, ho visitato i luoghi in cui ha vissuto Carnera, ho conosciuto i suoi figli; inevitabilmente mi hanno proposto di fare un film su di lui. Carnera è un film di valori, non un altro film sulla boxe; è un film su un uomo, che aveva fortemente radicati dentro di sé alcuni valori e li ha difesi sino alla fine. Questa è la storia che cerchiamo di raccontare.
Ad uno studente universitario cosa direbbe per incoraggiarlo a vedere i suoi film?
Penso che i giovani sentano istintivamente quando la verità è stata rimossa o mascherata. La verità non è un monolite con una faccia, ma un prisma con mille facce; il tentativo e l’ambizione dei miei film è di girare questo prisma, di far capire che ci sono delle sfaccettature nelle verità storiche. La voglia di verità è ciò che dovrebbe spingere un giovane universitario a vedere i miei film.
A cura di Giacomo Berdini e Francesco Zurlo
Chi è Renzo Martinelli?
Renzo Martinelli è laureato in Lingue e Letterature Straniere, e specializzato in cinematografia alla Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano. Negli anni ’70 fonda una casa di produzione, la Martinelli Film, con la quale realizza numerosi videoclip musicali, spot pubblicitari, documentari ed anche inchieste per conto della Rai. L’esordio nel cinema è nel 1993 con Sarahsarà storia di una ragazzina di colore portatrice di handicap che, sconfiggendo razzismo e pregiudizi, ottiene un grande traguardo sportivo. Nel 1997 è la volte di Porzus - film che rievoca un episodio di lotta intestina all’interno della Resistenza - il quale, presentato a Venezia, suscita grandi dibattiti e polemiche. Seguono Vajont e Piazza delle Cinque Lune, ricostruzioni di due dei pìù drammatici episodi della storia italiana recente (rispettivamente il crollo della diga del Vajont e l’omicidio Moro), dove si precisa maggiormente il gusto del regista per un cinema che unisca impegno civile ed impatto spettacolare. Nel 2006 esce Il Mercante di Pietre, opera che per le sue posizioni decisamente poco politically correct sulla questione del rapporto con il mondo islamico, suscita nuovamente accese polemiche.
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